Obama 2012: dalla poesia alla prosa. La speranza lascia il posto al sorriso.

Change.Tutto iniziò così. In tanti ci credevamo quattro anni fa, quando l’America ha eletto un Presidente che con le sue parole faceva sognare il mondo intero. La crisi economica aveva iniziato a mordere da poco e ancora non potevamo immaginare gli effetti devastanti che avrebbe causato. Ma in molti pensavano che Obama c’avrebbe salvato, conducendoci in un futuro di prosperità, serenità e fratellanza. Le premesse c’erano tutte: popoli di ogni razza e cultura uniti per festeggiare l’elezione di un Presidente di uno Stato straniero, A un certo punto della storia gli abitanti di tutto il mondo erano diventati cittadini degli Stati Uniti d’America.
Ma Bacone diceva che “la speranza è buona come prima colazione, ma è una pessima cena”. E quattro anni dopo stiamo mangiando amaro. Lentamente questa forte ondata di speranza si è affievolita di fronte alle difficoltà del governo, al peggiorare della crisi economica, alle violenze che ancora sono presenti in gran numero nei vari conflitti internazionali.
Più la speranza evapora, più ci sentiamo perduti, incapaci di disegnare il futuro che vogliamo e che adesso ci appare irrealizzabile.
Ma pochi conosco il vecchio adagio che regna nel campo della comunicazione politica: “si fa campagna elettorale in poesia, ma si governa in prosa”.
E se la poesia di Obama pre-elezione era un piacere per il nostro cuore e il nostro spirito, sensuale come una dedica amorosa di Neruda e struggente come I Canti di Leopardi, i suoi primi 4 anni di governo verranno ricordati per una bellissima prosa, ma aspra e fortemente pragmatica, come una sceneggiatura di Pasolini.
Obama è stato un buon presidente in tempi veramente difficili, il che di questi tempi è già un ottimo risultato, cercando di risolvere nel miglior modo i molti problemi che gli si paravano davanti. Non è riuscito a mettere in moto la sua/nostra visione a lungo termine, svuotando quella speranza che dava fuoco alle nostre emozioni.
Non c’è riuscito per molti motivi tra i quali il sistema istituzionale americano: nel 2010 la maggioranza del Senato è andata ai Repubblicani, i quali si sono tenuti alla larga da politiche bipartisan, ostacolando in ogni modo tutte le politiche portate avanti da Obama, che in effetti ha portato a compimento i maggiori successi della sua presidenza nei primi 10 mesi di mandato: the Affordable Care Act, che ha allargato l’assistenza sanitaria, il piano per il ritiro dalle stupide guerre in Medio Oriente, il piano per dare più fondi all’educazione e all’economia verde.
Obama ha iniziato la campagna elettorale parecchi mesi fa, cambiando decisamente i contenuti e i messaggi rispetto al 2008.Non più una grande visione di futuro, ma una lista di piccole riforme approvate da sondaggi e focus group. Sicuramente meglio del suicidio economico di tornare alle politiche di Bush e precedenti offerto dai Repubblicani, ma in pochi credono nelle capacità taumaturgiche di Obama nel risanare la finanza e i problemi del mondo intero. D’altra parte si deve definitivamente capire che non c’è possibilità se il cambiamento viene da una sola voce, anche se potente come quella del Presidente della nazione più influente del mondo. E l’Europa ha negato il suo supporto, troppo impegnata nel cercare disperatamente di sopravvivere, incapace di riuscire a parlare con una sola voce. Sostegno internazionale e visione futura: i pilastri per costruire qualcosa di nuovo sono crollati subito dopo l’elezione e con loro la nostra speranza.
Ho vissuto la campagna elettorale in prima persona, grazie al fatto che ero a Boston per studiare. Due miliardi di dollari sono stati spesi dai due candidati, soprattutto in tv ads, usati prevalentemente per attaccare l’avversario, rendendo l’intera campagna povera di contenuti e ricca di amarezza e odio. Lasciando stare l’abominio SuperPac, ovvero i comitati finanziatori dei due candidati che non devono rendere pubblici i donatori, rendendo tutto più torbido e oscuro, è stata una brutta campagna elettorale, un pallido ricordo dei fasti del 2008. Pochi i momenti di rottura rispetto a una narrativa ridondante e ossessiva, con i due competitor che alla fine non avevano più spazio sulle tv perché li avevano comprati tutti. Il primo dibattito poteva cambiare tutto, perché aveva dato attenzione e “gravitas” a Romney, decisamente più brillante di un patinato Obama. Ma il Presidente in carica si è ripreso negli altri dibattiti, contrastando il momento del candidato repubblicano, ma rendendo l’intera corsa elettorale più incerta e difficile. Ha basato tutta la campagna sulla fiducia, parola difficile da gestire in politica, soprattuto quando si sta affrontando una crisi economica che ha portato alla disperazione migliaia di famiglie.
Ce l’ha fatta. 4 more years. Ancora quattro anni. Non cambierà il mondo, ma potrà cambiare il destino di molti americani, aumentando l’assistenza sanitaria, promuovendo l’uguaglianza, sostenendo istruzione e ricerca e cancellando le follie finanziarie che hanno causato il disastro economico. E se la speranza è morta, qualcosa può rinascere dalle sue ceneri: l’empatia. La consapevolezza che una politica basata sul benessere collettivo, che cerca di aiutare chi rimane indietro e premia gli sforzi di chi si impegna, alla fine può essere vincente. La sconfitta dell’egoismo, dell’avidità, della gelosia, dell’invidia. Qualcosa che può essere riassunto con una citazione presa dal film “Into the wild”: la felicità è tale solo se condivisa.
Per questo, anche se non c’è più l’elettricità e le emozioni di quattro anni fa, trovarsi in mezzo a tanti amici democratici, ritrovarsi nei loro sorrisi, nella loro contentezza, nella consapevolezza che sì, nonostante tutto, il futuro per loro sarà migliore, mi rende felice. Si chiama empatia. E’ diversa dalla speranza, perché non si basa sugli altri, ma sui sentimenti che proviamo noi stessi. L’empatia non si consuma, dipende solo da noi.
Rifkin diceva “La coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita.”
L’empatia ci porta ad apprezzare l’uguaglianza, la solidarietà e l’attenzione per il prossimo, che sono le direttrici delle politiche di Obama, ma anche le nostre.
Per questo stasera sono contento e celebro la vittoria dei miei ideali, delle mie lotte, dei miei sogni. Per questo oggi mi sento americano. Ma da domani si ritorna a pensare all’Italia. Quando la speranza non ci guida più, ci rimangono le azioni concrete, ovvero la tanto vituperata politica con le migliaia di ostacoli da superare per ritrovare quel senso di empatia comune. Obama c’è riuscito. Dalla poesia alla prosa. Riusciamo a scrivere qualcosa anche noi o resterà solo qualche appunto scarabocchiato su fogli sparsi?
Ma stasera festeggiamo, abbiamo vinto. Prepariamoci, fra poco toccherà anche a noi dimostrare di poter di nuovo sorridere insieme.


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