2 – Il primo stereotipo non si scorda mai – L’arrivo in America

Canzone da acoltare: America di Gianna Nannini

Odio gli stereotipi. Non ti permettono di vedere la realtà per come è, nella sua varietà e diversità. Noi italiani poi siamo le prime vittime: non c’è posto nel mondo dove non abbia sentito il classico “italiano pizza, spaghetti, cappuccino”, a volte condito con epiteti ancora più crudeli come “mafioso” e “padrino”. Ma la parola che andava più in voga era anche l’accostamento più bieco e desolante: “italiano = Berlusconi”.
Per aver sofferto questa terribile onta e vergogna cerco di non giudicare gli altri popoli tramite stereotipi. Non è vero che gli inglesi sono freddi, gli svizzeri puntuali, i francesi saccenti. Magari solo un po’.
Quindi, mentre sorvolo l’oceano Atlantico con il mio aereo della sconosciuta Aer Lingus, compagnia di bandiera irlandese, penso a cosa avrei trovato al mio arrivo. Ero convinto che le dicerie sugli americani fossero esagerate, per colpa della nostra mania di esagerare tutto per sembrare più interessanti e da un’iconografia mutuata dal cinema che non ci aiuta.
Con questo spirito curioso atterro al Boston Logan, l’aeroporto cittadino che si trova su un’isola vicino alla città del quale porta il nome: quale sarà la prima cosa che vedrò? Quale sarà il primo impatto?
Emozionato dalla nuova esperienza non sento nemmeno la stanchezza del volo. Per me è giorno da 24 ore, ma la mente è troppo eccitata per sentire le fatiche del corpo. Ho la fortuna di scendere per primo (gli italiani non fanno la fila, altro stereotipo da smontare) e incamminandomi verso l’uscita, mi si para davanti la prima sorpresa: un poliziotto abbondantemente sovrappeso con occhiali da sole (dentro l’aeroporto ovviamente) e cappello da sceriffo!
“No, non può essere vero!” penso mentre faccio una larga deviazione per evitare l’impatto. E’ solo un caso che la prima persona che incontro è uno sbirro “ diversamente magro”, figura secondaria che si ritrova in migliaia di film d’azione, ma che fa spesso una brutta fine. L’antieroe americano per eccellenza.
Ancora stordito dall’incontro, traggo un sospiro di sollievo: almeno non aveva una ciambella nelle mani, tratto caratteristico dei poliziotti oversize. Ma le mie certezze stavano per essere demolite ancora una volta, quando, appena varcata l’uscita dal gate, una luce brillante acceca i miei occhi stanchi: “Dunkin’ Donuts”. La prima cosa che vedo dell’America è un maledetto negozio di ciambelle, con la sua ricca offerta di dolci glassati, ripieni di creme varie, ma soprattutto ricchi di zucchero e altre amenità mielose. Le classiche ciambelle americane che abbiamo cominciato ad apprezzare e conoscere grazie alla voracità di Homer Simpson, ma che da noi non hanno ancora preso piede. Posso intuire anche il perché: solamente vedendole, sento già i denti che si cariano.
E’ stato questo il primo impatto dell’America, un classico degli stereotipi made in USA che ha dato un gancio e un montante alla mia ferrea volontà di andare oltre l’immaginario collettivo. No, non può essere tutto così, non posso credere di vivere costantemente dentro un film o un cartone animato.
Ancora fortemente disorientato, vedo avvicinarsi un ragazzo nero verso di me. Giuro che se mi dice “yo, bro!” porgendomi il pugno avrei preso il primo aereo per l’Europa urlando come Macaulay Culkin, il ragazzino di “Mamma ho perso l’Aereo!”. Ma per fortuna volge lo sguardo altrove e mi supera in un consolante silenzio. C’è ancora speranza.
L’arrivo procede nella normalità, cercando di capire come abbandonare l’isola per raggiungere la città.
Sembra che ci sia una navetta, dove si legge bene la scritta “FREE”. Ma se ho imparato una lezione è quella che nessuno ti regala niente e chiedo all’autista la certezza che non andrò a pagare qualche strana tariffa aggiuntiva, o che mi porti in qualche sperduto posto lontano dalla civiltà. Non sarebbe la prima volta, soprattutto quando sei in Europa e arrivi in quei minuscoli aeroporti lontani dalla città dove vola la Ryanair. Si fa presto a montare sul bus sbagliato e ritrovarsi in un’altra città, diversa da quella programmata. Almeno cerco di convincermi che sia normale confondersi, visto che mi è successo almeno un paio di volte.
Ma non mi sembra questo il caso e lo svogliato autista (ovviamente di colore)  allontana le mie preoccupazioni.
La navetta mi lascia alla prima fermata metro utile per raggiungere la destinazione finale e qui ho un altro sussulto: sono finito direttamente sul binario della stazione metropolitana rossa, chiamata South Station, senza aver fatto né biglietto, né altro.”Ecco scoperto l’inganno”, mi dico con un po’ di supponenza, “quando arriverò a destinazione dovrò pagare una tariffa mostruosa! Pensano di fregare un italiano? E’ come rubare in casa dei ladri” (tanto per alimentare lo stereotipo dell’italiano furbo).
Chiedo quindi delucidazioni al personale di stazione, domandando quanto avrei dovuto pagare e preparandomi al salasso. “Nothing” rispose il ragazzo con la giacca rossa, che lo contraddistingueva come lavoratore-pipistrello, come chiamo quelli che stanno ore chiusi sottotera per far funzionare la metro. Infatti è un servizio gratuito per chi arriva dall’aereoporto. Ok, America, ora ci siamo. Questi sono i servizi intelligenti che ti aspetti di trovare, anche se il mezzo che sopraggiunge non ha niente di avveniristico, anzi…direi che assomiglia decisamente ai nostri scalcinati treni regionali, arrugginiti e dal sapore vagamente retrò. Che sia un effetto voluto?
La stazione dove devo scendere si chiama “Central”, una fermata dopo quella di Kendall/MIT. Non riesco a capire la funzione dei grandi vetri della carrozza fino a quando, all’improvviso, la metro ritorna in superficie per attraversare un ponte (il Longfellow bridge): davanti a me si apre tutto lo scenario di Boston all’imbrunire, con la sua skyline di grattacieli e di megastrutture.

Lo stupore fanciullesco dura pochi secondi, il rientro sottoterra è come la fine di un sogno a occhi aperti. Mentre scendo dalla carrozza, con un sorriso ebete ancora stampato in faccia, rifletto su quello che avevo visto: “credo proprio che amerò questa città”. E quindi uscì, a riveder le stelle… (e strisce).


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