L’inverno italiano: la Prima Protesta Mondiale (1)

E’ difficile parlare del contesto locale e nazionale senza dare uno sguardo a quello che sta succedendo globalmente.
Un anno strano il 2011. Iniziato con la morte di un tunisino, Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco per protestare contro le diseguaglianze economiche del suo paese. Mai avremmo immaginato che una singola morte avrebbe scatenato un’insurrezione popolare. Mai avremmo immaginato che quella folla di persone riuscisse a destituire il tiranno democratico Ben Alì. Mai avremmo immaginato che, come una forte malattia virale che si propaga ad onde concentriche, il seme delle proteste si sarebbe esteso ai paesi vicini. In Egitto decine di migliaia di persone si ritrovano in Piazza Tahrir, chiedendo a Mubarak di farsi da parte dopo 40 anni di regime illiberale. Seguono Marocco, Algeria, Libia, con la tremenda guerra civile ancora in corso. E poi Yemen, Siria, Bahrein. Il contagio continua, non conosce limiti e sbarca nel “civilissimo” Occidente. I manifestanti in Grecia, gli indignados spagnoli, le sommosse in Inghilterra. E Israele, Portogallo, Albania, Francia, fino a superare l’Atlantico, arrivando in Cile e in America. Meno di un secolo fa quasi tutti gli stessi Paesi stavano vivendo il disastro della Prima guerra Mondiale. Adesso possiamo parlare di Prima Protesta Mondiale.
Una protesta comune, fatta per lo più da giovani, uniti dal fatto di essere la prima generazione globale, con gli stessi problemi e le stesse preoccupazioni: non avere un lavoro, non avere un’istruzione degnai , di essere vittima di disuguaglianze. Un filo rosso che unisce lo studente cileno, il funzionario greco, l’operaio inglese, il contadino egiziano. Democrazia e lavoro: queste le due parole che rimbalzano dalle Ande al Sahara, contro le enormi disparità politiche, sociali ed economiche che si sono aggravate negli anni, nascoste sotto il tappeto quando stavamo meglio, esplose adesso che viviamo una fortissima crisi.
Una crisi globale causata da noi, dall’avidità, dai giochi di potere, dall’Occidente, che ci ha visto in un primo momento inerti, immobili, in attesa di nuove istruzioni da chi la crisi l’ha creata. Fare i soldi con i soldi e non con il lavoro. Non abbiamo ascoltato chi, già dieci anni fa, urlava contro i difetti della globalizzazione finanziaria. Ci ha svegliati un fruttivendolo tunisino, la goccia che ha fatto straripare un vaso già colmo e che adesso si sta rompendo in mille pezzi.
Nell’era della globalizzazione, dei social network da milioni di utenti, giovani di tutto il mondo hanno scoperto che non sono soli a soffrire, che sono in molti a subire le disuguaglianze create dai pochi. E sono scesi in piazza.
L’hanno chiamata primavera araba, estate spagnola, autunno americano. 3 stagioni che continueranno ancora per molto, che si alimentano, dall’esito imprevedibile.
E in Italia? In Italia sembra che l’unica stagione possibile sia l’inverno. Tutto è fermo, congelato. Speranze, sogni, futuro.
Anche i rapporti tra i partiti e i cittadini sono freddi, freddissimi. Non si riesce nemmeno a reagire insieme. Ognuno vuole il suo spazio di protesta. Ognuno vuole esprimere la sua indignazione. Ognuno accusa l’altro.
E’ triste vedere come, all’epoca della Prima Protesta Mondiale, di un risveglio globale, il nostro paese sia ancora in letargo, sia economicamente che socialmente.
Non occorre una rivoluzione. Basta una metamorfosi. Il mondo ci sta aiutando: le varie proteste, le manifestazioni sono uno stimolo, un messaggio: basta con le diseguaglianze. Ascoltiamole.
Coloro che rendono le rivoluzioni pacifiche impossibili, renderanno quelle violente inevitabili. J.F:Kennedy


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